lunedì 21 febbraio 2011

Oltre la tecnica: quando trovi quello che non t'aspetti

La fotografia è una disciplina legata a doppio filo alla dimensione tecnica. Tecnica intesa sia come padronanza degli strumenti usati, sia come caratteristiche di questi ultimi.
Nei campi di applicazione un pò più estremi, qualità e piacevolezza di un'immagine sono strettamente legate al tipo di macchina fotografica che usiamo ed al modo in cui siamo in grado di gestirla. Questo, ovviamente, non è sempre vero, e l'aspetto tecnico, di per sè, non è condizione nè necessaria nè sufficiente, per la realizzazione di immagini gradevoli. C'è tutta un'altra dimensione, molto più aleatoria, incommensurabile, che concorre nel determinare la qualità finale di un'immagine, qualità che, beninteso, in questo caso, non è riconducibile ad un concetto oggettivo, assoluto, misurabile secondo criteri meramente tecnici o, comunque, oggettivi. Attenzione però, non parlo neppure di bellezza, perchè l'impegno profuso nei secoli dei secoli nel tentativo disperato di definire il bello è stato tale che, alla fine, siamo riusciti a trasformare un'esperianza assolutamente soggettiva, l'esperienza della bellezza, l'assaggiarla con gli occhi quando ce la troviamo di fronte, in un qualcosa di canonizzato, definito da parametri più o meno stringenti, ma comunque assoluti, oggettivi.
Sto parlando, piùttosto, della capacità che un'immagine ha di stimolare una sensazione dentro di noi: la forza di una fotografia. Questa è, per me, la qualità intrisneca di un'immagine, tutto il resto è accessorio. Tecnica, composizione eccetera. Questi aspetti sono funzionali “solamente” alla trasmissione di una sensazione, sono le parole che servono per raccontare, per far capire agli altri, e, senza dubbio, vanno conosciute e padroneggiate, per far sì che chi ci ascolterà, chi guarderà una nostra immagine, riesca a percepire ciò che gli sta dietro.



Quindi, sia chiaro, con questo discorso non ho intenzione di svalutare la dimensione tecnica della fotografia, o di qualsiasi altra “arte”, dimensione che è assolutamente fondamentale ed imprescindibile, è il vocabolario di cui disponiamo, e quanto più questo sarà vasto, tanto più saremo in grado di condividere con gli altri ciò che abbiamo visto e provato.



Ho divagato, come spesso mi capita.
Ho iniziato a scrivere questo post con l'intento di porre l'accento su aspetti della fotografia che, in un corso base come il nostro, difficilmente possono trovare spazio, perchè la dimensione tecnica, in fotografia, è talmente pervasiva che si corre il rischio di perdere di vista il fatto che la padronanza della macchina fotografica è solo un mezzo per raggiungere un fine, e trasmettere questo con un corso per principianti che, per forza di cose, non può prescindere dall'affrontare principalmente argomenti tecnici, è cosa assai complicata.
Capire la tecnica per dimenticarla, così si dice, ed è giustissimo, si deve raggiungere un livello di padronanza del mezzo tale da permetterci di concentrarci solo ed esclusivamente su ciò che stiamo fotografando.
Il fotografare, spesso, da molto più piacere del guardare ciò che fotografando si è realizzato. Osservare, esplorare una scena tentando di individuare il modo migliore per ritrarla, prendendosi il tempo, respirando, è un'esperienza indescrivibile, la cui qualità ed intensità prescindono completamente dalla fotografia che poi si realizzerà. Avere una macchina fotografica in mano, spinge ad osservare le cose in maniera diversa, con più attenzione ai particolari, è un altro modo di vedere la realtà, e voi, che non fotografate per professione, avete la possibilità di fare questa esperienza in tutta tranquillità, senza pressioni, prendendovi la libertà di sbagliare. Quindi, l'invito che vi faccio, è di godervi l'atto del fotografare e tutto ciò che si porta dietro, senza crucciarvi troppo per i difetti tecnici delle vostre fotografie. 

Questa è la morale, ora vi racconterò la “favola”, un aneddoto, un'esperienza personale che ho fatto nei mesi in cui ho cominciato ad avvicinarmi alla fotografia con maggiore serietà. E' forse l'esperienza che mi ha fatto innamorare definitivamente della fotografia, perchè mi ha permesso di capire ciò che ho appena descritto: fotografando si va oltre la fotografia. Essere là vivere il momento. La macchina fotografica può essere un semplice pretesto per osservare il mondo con occhi nuovi.

Avevo da poco cominciato a frequentare lo studio di Marco, avevo seguito un matrimonio con lui e ancora non sapevo che quello sarebbe diventato il mio lavoro. Erano i giorni in cui L'Aquila è stata distrutta dal terremoto e mi si è presentata la possibilità di andare laggiù, avevo intenzione di fare un servizio fotografico, un reportage. In realtà volevo solo delle immagini d'effetto per riempire il mio portfolio. Così sono andato laggiù, senza arte né parte, accompagnando i tecnici che si occupavano della manutenzione delle tende pneumatiche che ospitavano i terremotati, senza avere né un'idea precisa su ciò che stavo tentando di realizzare, né le capacità e l'esperienza per realizzarlo.

Per qualche giorno mi sono aggirato per il campo facendo fotografie che, oltretutto, non avevo il permesso di scattare. Vedevo quella gente senza capire bene la situazione che stavano vivendo, con l'ossessione di ottenere delle belle immagini, senza rispetto, perchè quelle foto le avrei scattate solo per me. E' andata avanti così per un paio di giorni, senza che fossi riuscito a concludere nulla, tutte foto scontate, fatte da lontano (sia in senso letterale che in senso lato), perchè non avevo le palle di avvicinarmi davvero a quella gente. Ero distante dalla scena, con la foga di ottenere qualche cosa, ma con la paura di entrare in contatto con ciò che volevo fotografare... Dilettanti allo sbaraglio, ma non è questo il punto.
Una sera, alla mensa del campo, ho conosciuto una coppia, erano marito e moglie.

Parlammo un po', era la prima volta dal mio arrivo al campo che stabilivo una qualche forma di contatto umano con gli altri ospiti, "le famiglie in campeggio" di berlusconiana memoria.
Parlammo a lungo, e loro si aprirono, e mi raccontarono la loro esperienza, quello che era stato il terremoto, la terra che ha tremato per un minuto.

Un minuto è lunghissimo.

Il rumore del terremoto, mi dissero, è la cosa più spaventosa, un rombo che arriva dal basso e riempie l'aria, solo dopo arriva la scossa.
Mi dissero che il giorno seguente, Alessandra, una delle loro figlie, si sarebbe laureata, ed erano felicissimi. Mi sembrava tutto così strano, la vita che continua anche dopo una tragedia come quella che ha colpito L'Aquila (erano passate solo due settimane dal terremoto). Certo, considerazioni come queste possono sembrare delle banalità, specie dopo che ci siamo assuefatti ai fiumi di parole che hanno inondato TV e giornali in seguito al terremoto, strumentalizzando, per questo o quel fine ed  in modo più o meno bieco, quella calamità (cosa che, peraltro, nel mio piccolo, avevo intenzione di fare anche io quando sono partito).
Sentendo parlare quelle persone, trovandomele davanti, guardandole negli occhi, ho assaggiato quella loro felicità che mai mi sarei aspettato di trovare nella disperazione. E' facile provare empatia in simili condizioni, è facile sentirsi “sulla stessa barca”: dormivamo tutti al freddo, nelle tende, ci lavavamo tutti all'aperto nei lavandini da campo del Battaglione San Marco, mangiavamo tutti alla stessa mensa, è facile immedesimarsi, ci sono poche barriere da buttare giù. Provare la voglia esagerata di partecipare alla felicità della famiglia di Alessandra fu inevitabile, così decisi di fotografare la cerimonia di laurea. Poca cosa, infima, un nulla per me, ma non vi dico cosa provai sentendoli al telefono alcune settimane dopo, quando ricevettero il cd con le foto, non lo dico perchè correrei il rischio di rendere banale un'esperienza enorme, ma soprattutto non ve lo dico perchè non sono fatti vostri.






Tutto questo per non scordarsi che oltre alla'aspetto tecnico, che sarà il centro di gravità del nostro corso, nella fotografia c'è altro, molto altro.





5 commenti:

  1. E' proprio questo che penso di me adesso, che non riesco ad "entrare dentro" un'immagine, per timore ma più che altro per pudore...
    Un pò di tempo fa a Roma ho incontrato un uomo a Piazza Navona che suonava la fisarmonica, mi piantò gli occhi addosso e io lo fotografai con la mia compatta, perdendo quell'attimo, quello sguardo, non riuscendo a catturarlo.
    E ora che ho iniziato questo corso vorrei solo tornare indietro e buttarmi, fotografarlo più da vicino (in tutti i sensi) e catturare quell'attimo, fuggente.
    Ci ripenso, ma mi serve da lezione, ci saranno altri occhi da catturare, non è finita mica qui! :-)
    Francesca

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  2. si sono d accordo anche io.....
    riuscire a padroneggiare il mezzo tecnico per potermi dedicare a capire ed interpretare il soggetto o la scena con l unico scopo di poter trasferire a chi guarda la foto un emozione. che sara' comunque soggettiva.

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  3. compiti per casa "Le Ombre"..già nel titoo sono in panico....ma x di più le foto se non riusciamo in manuale inizialmente e per scattare qlc meglio di niente si pou' procedere con l'automatico?!?!
    nella prox lezione vorremmo capire come funziona la nostra macchina xchè non riusciamo ad impostarla....Elena e Fabio

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  4. Meglio in manuale, ma se non riuscite a capire come impostare la macchina mi accontesto dell'automatismo. Domani portate la macchina così la guardiamo insieme

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